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CARATTERI GENERALI DELL’IMPUGNAZIONE IN VIA PRINCIPALE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO, L’INTERESSE A RICORRERE: YULHMA V. BALDERAS ORTIZ.

CARATTERI GENERALI DELL’IMPUGNAZIONE IN VIA PRINCIPALE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO: L’INTERESSE A RICORRERE

di Avv. Yulhma V. Balderas Ortiz
Dottore di ricerca in Diritto pubblico, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

In primo luogo, va evidenziato che il modello di riferimento nei giudizi in via principale, adoperato dall’Assemblea Costituente è quello del giudizio di impugnazione tipico della giurisdizione amministrativa. Ciò spiega perché questo venga definito “giudizio di parti”. In esso è essenziale la presenza di un “interesse proprio dei ricorrenti”[1]. Tutela che è assicurata, per un periodo definito, ovvero fino al decorso del termine legalmente previsto, oltre il quale l’atto diviene inoppugnabile. Viceversa, l’interesse, non di parte, ma generale, alla legittimità delle leggi che può essere tutelato mediante il giudizio in via incidentale, sempre attivabile nel corso di un qualsiasi giudizio in cui si ponga il problema di applicare la legge statale o regionale. Di conseguenza i due tipi di giudizio non sono alternativi, ma concorrenziali[2].

Per quanto riguarda il giudizio in via principale tra Stato e Regioni, gli articoli 127 della Costituzione, 2 della Legge costituzionale n. 1/1948 e 31 successivi della Legge n. 87/53, conferiscono al Governo la facoltà di deliberare l’impugnazione delle leggi[3] regionali, che eccedano la competenza della Regione, entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. Ed ancora, tali disposizioni riconoscono alla Regione, la facoltà di sollevare la questione di costituzionalità davanti alla Consulta, nell’ipotesi in cui una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.

La scelta di impugnare la legge, considerando che il giudizio in via principale è diretto a tutelare l’interesse soggettivo dell’ente titolare del relativo potere è il risultato di una scelta di opportunità, cioè politica[4] da parte dell’interessato. Pertanto la decisione di impugnare la legge non ha carattere doveroso[5]. Per tali motivi, in seguito all’instaurazione del giudizio, l’eventuale rinuncia[6] al ricorso, se accettata dalla controparte (nell’ipotesi in cui questa fosse costituita), lo estingue[7] senza bisogno di alcuna motivazione.

Per quanto concerne gli organi abilitati a deliberare l’impugnazione, questi sono il Governo tramite il Consiglio dei Ministri[8], e le Giunte regionali[9]. In seguito, il compito di sollevare il ricorso è riservato ai rappresentanti degli organi collegiali, ovvero al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Presidente della Regione.

A tale riguardo va ricordato che la disciplina in materia[10] prevede che la proposta di deliberare l’impugnazione può scaturire anche dagli organi esponenziali statali o regionali (ovvero la Conferenza Stato-Città e autonomie locali, nell’ipotesi di ricorso su una legge regionale e il Consiglio delle autonomie locali, nell’ipotesi di ricorso su una legge statale), dal circuito degli enti territoriali sub-regionali (Province e Comuni), a cui non è stata riconosciuta costituzionalmente la legittimazione diretta. In quanto alla natura della proposta, questa non è vincolante e aspetta agli organi dello Stato o della Regione[11].

Il legislatore ha così allargato il giudizio in via successiva, estendendo anche l’impugnazione delle leggi statutarie speciali disciplinata nei relativi Statuti[12].

Nel merito, la Consulta ha disposto nella sentenza 469/2005 che l’unica eccezione[13], è raffigurata dal sindacato sugli Statuti regionali ordinari sui quali “l’esplicita previsione di uno speciale” e meno favorevole (dato che ha natura preventiva). Infatti, tale forma di sindacato provoca che la legge statutaria successivamente alla sua promulgazione e pubblicazione nel Bollettino Ufficiale, non sia valido applicare anche il sindacato successivo disposto per le altre normative regionali dall’articolo 127, comma 1, della Carta costituzionale[14].

NOTE: 

[1]Su questo aspetto,  A. CERRI: “(…)L’interesse a ricorrere, se deve acquisire un rilievo autonomo, non può che essere inteso come requisito ulteriore della legittimazione stessa: come necessità ed utilità (ovvero: sufficienza) del ricorso a difendere le posizioni sostanziali fatte valere. Così inteso, l’interesse diviene un requisito anche del ricorso statale (il che in genere si nega, ritenendolo assorbito nella ampia legittimazione fatta valere). Poiché se A è condizione necessaria e sufficiente di B, B è condizione sufficiente e necessaria di A e, dunque, A e B. si coimplicano e sono equivalenti, secondo la logica generale, dire che l’azione (intesa nella sua veste esteriore di atto processuale) deve essere strumento necessario e sufficiente a ristabilire il diritto, non significa che lo sia di per sé sola: l’azione è, da sola, strumento necessario; ma è sufficiente solo insieme con altre condizioni, fra cui (e non è poco) la fondatezza della domanda (ciò il giurista esprime dicendo che l’azione/ricorso deve essere strumento “astrattamente idoneo” allo scopo). Qui, appunto, ha sede il problema, evocato da REDENTI (la famosa “quinta ruota del carro”) e sviluppato da SATIA, se l’interesse sia fattore autonomo o risulti del tutto assorbito nel merito. Senza voler pregiudicare il problema, le osservazioni che si faranno in questo contesto e poi con riguardo al conflitto fra enti e fra organi muovono da un’ipotesi di autonomia e, cioè, l’azione deve esser necessaria a ristabilire il diritto (e, dunque, deve attenere ad un bene non conseguibile, ad es., in via privata: Cass., 5281, 5819/1997) e sufficiente, nel senso che, ove non sia a ciò astrattamente idonea, la medesima fondatezza della pretesa risulterebbe insignificante (il 12° in graduatoria impugna atto di concorso a l0 posti, in relazione al vizio, sussistente, di colui che è stato classificato come nono). La problematica è vicina, come accennato, a quella della rilevanza nel giudizio incidentale. Di queste perplessità generali sembra farsi eco il BARTOLE (1965 e 1974); mentre ESPOSITO sembra valorizzare il dettato legislativo sui giudizi in via d’azione, privo di riferimenti a condizioni ulteriori rispetto alla fondatezza della domanda ed alle modalità per proporla. Anche, del resto, con riguardo alla cessazione della materia del contendere si discute se essa consegua davvero al venir meno dell’interesse o piuttosto al venir meno dell’oggetto della contesa. La formula della cessazione della m. del c. coesiste con quella dell’inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse, talvolta ritenuta equivalente (Cons. St., Ad. plen., 3 maggio 1960), ma più di recente ritenuta più ampia, cosi da comprendere anche ipotesi di conferma dell’atto impugnato con altro a sua volta non impugnato (Cons. St., sez. V, 22 gennaio 1987, n. 20; sez. IV, 2 ottobre 1989, n. 666). Le due formule coesistono nella giurisprudenza della Corte, specie con riguardo ai conflitti. L’interesse ad agire si ritiene requisito indispensabile del ricorso sia per ragioni di economia (il processo è strumento costoso che non può essere impegnato da ragioni di mera curiosità o iattanza), sia per ragioni di preservazione dell’imparzialità del giudice (che più serenamente giudica quando è di fronte alla collisione di interessi concreti piuttosto che quando è di fronte ad una mera contrapposizione di tesi politiche), sia per ragioni (connesse) di offrire alla sua opera ricostruttiva del sistema sollecitazioni, referenti reali e non puramente astratti, in guisa che questa opera risulti integrativa, senza inutili e dannose sovrapposizioni, rispetto a quella del legislatore. Se questo è il nostro approccio, allora concordiamo solo limitatamente con il punto di vista di B. SASSANI, secondo cui detto requisito esige la coerenza fra impiego degli strumenti processuali e loro finalità tipica; ciò è solo parte del problema, perché l’interesse ad agire esige ancora un effettivo bisogno di tutela, coerente bensì con la natura degli istituti, e, tuttavia, anche attuale e concreto. In base all’interesse a ricorrere, ad es., è stato valutato se sia impugnabile una legge delega (prima dell’emanazione del decreto delegato) oppure no; una legge attributiva di facoltà (e non di un compito doveroso); una legge abrogata; una legge transitoria e temporanea; una legge che non ha avuto esecuzione e non potrà più averne; una legge non più efficace; una legge che contiene norme suppletive o dispositive, e, dunque, la medesima perdurante applicazione della normativa previgente, dopo una riforma costituzionale ( principio di continuità), cui, ad es., la Regione può sostituire le proprie; una legge superata da successive modifiche statutarie; una legge “confermata” da successivo atto di eguale valore o di livello costituzionale, a sua volta non impugnato, ecc Il requisito dell’interesse, dunque, sussiste fino a che non si ritenga sufficiente a radicare un giudizio principale la difesa astratta della competenza o (da parte dello Stato) della Costituzione, a prescindere da un’effettiva incidenza (o ricaduta negativa) della lesione lamentata. Ove l’interesse venga meno nel corso del giudizio, viene dichiarata la “cessazione della materia del contendere”. Si è già fatto cenno, a proposito della legittimazione, del carattere necessariamente “qualificato” dell’interesse che si fa valere, come anche dell’essere la legittimazione medesima delle Province autonome di Trento e Bolzano e della Regione T.A.A. condizionata all’interesse. Si tratta di settori di confine fra le due problematiche. L’interesse, ovviamente, condiziona l’ammissibilità dell’impugnazione, non la decorrenza dei termini, che si computano a far data dalla pubblicazione della legge, ancorché sia ad applicazione differita (sent. 332/1998; 407/2002; 3/2006). Sull’interesse ad impugnare tali leggi cfr. sent. 234/2005. Ove la legge fosse suscettibile di diverse interpretazioni sembrerebbe potesse essere impugnata immediatamente (cfr., dubitativamente, sent. 440/2006). Sulla non lesività di legge per clausola di salvaguardia delle competenze Regioni a statuto speciale cfr., ad es., sent. 273/2004; 159/2007. Si ammette o si esclude la ricorribilità contro leggi di delega in relazione alla loro attuale idoneità lesiva (cfr., ad es., sent. 111/1972; 91, 151/1974; 93, 94/2003, in senso negativo; sent. 37/1966, 242/1989, 224/1990; 308, 359/1993; 163, 425/2000; 125/2003, 280/2004, s. 205, e 384/2005, ecc.). Con riguardo a disposizione che incide sulle allocazioni di bilancio v. sent. 134/2005. Si esclude, invece, l’interesse a ricorrere contro norma programmatica: sento 378, 379/2004. Si esclude l’impugnabilità di legge meramente facoltizzante o dispositiva: cfr. sent. 353/1992; 204, 378, 418, 482/1995; 204/2001; 93/2003; 110/2007, ecc.; nel senso di valorizzare l’astratta lesione della competenza, cfr. sent. 3/2004 (in senso contrario, sent. 13/2004); nel senso dell’infondatezza, per carente lesività, sent. 93/2003; 36, 37/2004; cfr. anche sent. 4/2004; 21/2007. Si è esclusa l’impugnabilità della legislazione preesistente, da parte delle Regioni, perché rimovibile con l’esercizio effettivo delle proprie competenze (sent. 19/1956, 119, 120, 121/1971, 13/1974, 28, 31/1976 ed ora, ad es., 376, 524/2002; 329, 364/2003). Nel medesimo ordine di idee si è esclusa l’impugnabilità di norme statali da ritenere come suppletive o dispositive, derogabili dalla legislazione regionale (sent. 307/1983, 153, 214/1985, 192, 433, 517/1987, ecc.). Non si esclude l’impugnabilità di leggi eseguite, in relazione ad eventuali pretese restitutorie: sent. 31/1961; 202/2007. Cfr. sent. 378/1995; 213/2006, su norma transitoria; sent. 307, 359/2003, su leggi temporanee. Né si esclude l’impugnabilità di leggi ad applicazione differita ma ancora eseguibili: sent. 407/2002; 234, 268, 284, 287/2005; 88, 118, 133/2006; ma si esclude l’impugnabilità di leggi (anche regionali) ormai ineseguibili: cfr. sent. 40/1972, 84, 95/1981, su norma transitoria; sent. 127/1996, su legge regionale che non ha conseguito e non può più conseguire il suo scopo; 510/2002 (legge inattuata e in relazione al mutato riparto delle competenze); 186 (sopravvenuta carenza interesse), 228/2003 (non risulta né è allegato che abbia avuto effetti: accenno all’onere della prova); 26/2005. Ciò non vale se l’attuazione della legge sia ancora possibile: sent. .451/2006. L’interesse sussiste pur se, in seguito al venir meno della disposizione impugnata subentrino disposizioni ancor meno favorevoli al ricorrente, consistendo questo nel risultato immediato e tipico (sent. 43/1960; 437/1994). In quest’ordine di idee si è esclusa anche la carenza di interesse per mancata impugnazione di legge precedente del tutto analoga (sent. 8/1967); cfr., peraltro, sento 18/1956; 44/1957; 127/1987; 382/1999, che rigettano tale eccezione avuto riguardo all’effettiva non ripetitività della legge impugnata), La problematica ha a che fare anche con quella della perentorietà dei termini, dell’acquiescenza e dell’invalidità consequenziale. Si esclude, invece, l’interesse a coltivare l’impugnazione di leggi ordinarie “confermate” da successive leggi di valore costituzionale (cfr. sent. 16/1976, 230/1982; v. anche sent. 197/2003) “modificate” da sentenza della Corte cost. (sent. 71/2005; la Regione aveva sostenuto la cessazione della materia del contendere. È inammissibile (in definitiva, per inidoneità dell’impugnativa a rimuovere la lesione e, dunque, per carenza di interesse a coltivarla) questione proposta in via principale in ordine a dato testuale che non corrisponde al contenuto normativo evocato (aberratio ictus): sent. 372/2003; 413/2004; 248/2006; 141, 157 (inidoneità dell’impugnazione che non investe disposizione collegata), 201/2007; in senso perplesso, sent. 98/2007. V. anche sent. 162/2007. La rinuncia ad un capo di impugnazione si è tradotta in un difetto di interesse alla decisione: sent. 36/2005 o in cessazione della materia del contendere (sent. 425/2006: accettata dalla difesa della Regione); o in estinzione parziale (sent. 74/1977, accompagnata in questo caso dal difetto di interesse per la parte residua) e 422/2007. Si esclude, ancora, l’impugnabilità di leggi abrogate (o si pronunzia la cessazione della materia del contendere ove l’abrogazione sia intervenuta in tempo successivo all’impugnativa), con abrogazione retroattiva (sent. 24/1968; 34/1974; 230/1982; 334, 362/2003; 12, 15/2004; 3/2006; cfr., però, sent. 24/1968; 40/1972; 16/1976, in relazione ai limiti di retroattività anche di un accoglimento ecc.); v., ancora, in genere, dee. 126, 187/1980; 187/1990, 310/199; 312/2003; 8/2004, ecc. Il carattere “successivo” dell’impugnazione statale nei confronti della legge regionale ha eliminato una certa asimmetria che sussisteva in precedenza rispetto alla retroattività dell’abrogazione: cfr. sent. 53/2000; 159, 337, 412/2001. La cessazione della materia del contendere è stata pronunziata, ancora, in ipotesi di legge temporanea (approvativa, ad es., di un calendario venatorio) e non più applicabile al momento del decidere (sent. 37/1983; 45, 46/1987; 53/2000; 397/2005; 190/1987 e 171/1999); ipotesi questa speculare a quella dell’inammissibilità per inoperatività della legge già al momento dell’impugnazione; o quando la legge abrogata o temporanea non abbia ricevuto applicazione: cfr. ad es., dee. 443/2002; 93, 228, 359/2003; ord. 15, 92, o. 292, 314, 362/2003; 17, 196, 203, 274, 383/2004; 205 (legge delega espletata dal decreto legislativo in senso favorevole alla Regione), 272, 407, 455/2005; 216/2006; 154, 275/2007. Emerge, a questo proposito, un problema di “prova” degli eventi esecutivi. Sulla “abrogazione sufficiente”, da valutare anche in relazione ai motivi di censura, cfr., ad es., 18, 274 (modifiche satisfattive), 378 (valorizzato atteggiamento favorevole del ricorrente)/2004; 3 (modifiche satisfattive)/2006. Per un’ipotesi di riduzione della materia del contendere v. sent. 74/1957. È stata pronunziata in ipotesi di venir meno di normativa collegata (sent. 243/1985; 139/1986; 44/1987), da cui deriva l’inoperatività di quella impugnata. La materia del contendere viene meno anche quando non siano stati impugnati (neppure dinanzi al Tar) gli unici atti esecutivi della legge censurata: cfr. sent. 33/2005. n venir meno dell’interesse del ricorrente (sent. 390/2004, di estinzione, peraltro), come pure l’intesa raggiunta (sent. 47/1983: intesa, seguita da un inizio di esecuzione; 197/2003: legge attuata conformemente ad intesa con Conferenza Stato-Regioni; conforme, a contrario, sento 134/2004). determina la cessazione della materia del contendere; non quando, peraltro, l’intesa stessa potrebbe esser travolta da una decisione di accoglimento (sent. 98/2007). Alcune di queste decisioni possono esser criticabili; ma nel complesso, esprimono un indirizzo solido. È Stata pronunziata quando la normativa impugnata risulti confermata da normativa successiva non impugnata, “avvalorata” da normativa di livello costituzionale, od anche da normativa dell’ente medesimo che ricorre: sent. 106/1985; 258/1986; 15, 45, 46/1987; 611/1988; 197 (mutamento parametro)/2004. V., in senso conforme, con riguardo a legge di sanatoria di d. l. non convertito, diversamente, sento 533/2000; ord. 137/2004. Il tema (come i temi di difetto originario di interesse per analogo motivo) è connesso con quello del “trasferimento” del giudizio su disposizione riproduttiva e dell’invalidità conseguenziale. Presenta collegamenti anche con l’acquiescenza, da cui peraltro si distingue per il valore vincolante, anche per chi ricorre, dell’atto che si sovrappone a quello impugnato. In questo ambito problematico un caso particolare di cessazione della materia del contendere è dato dalla promulgazione parziale di legge della Regione Sicilia, decisa dal Presidente della Giunta, avvalendosi degli accennati poteri quando il giudizio non sia deciso nel termine di trenta giorni, con omissione delle parti impugnate (cfr. sent, 142/1981 ed, in seguito, giurisprudenza conforme); ciò, in quanto si è ritenuto il potere di promulgazione non esercitabile in modo “frazionato”. Si è finito, però, così per riconoscere al Presidente un (criticabile) potere di disporre della legge. AI evitare questo tipo di critiche, è sorta la prassi di sollecitare l’esercizio di questo potere attraverso mozioni, indirizzi (sent. 205/1996), quando non anche di approvare leggi le quali riproducono quella già approvata omettendo le disposizioni impugnate, le quali poi, ove davvero non rinunziate, vengono reinserite in leggi omnibus (sent. 127, 205/1996), senza precludere la sollecita entrata in vigore delle norme non impugnate e senza impegnare oltre misura la responsabilità del Presidente della Regione (sent. 60/1958). È interessate osservare come questa prassi e questa giurisprudenza si sia comunicata anche ad altre Regioni (cfr. ord. 192/2002). A mio sommesso avviso difficilmente si può uscire da una situazione fondata su discutibili premesse, se non rimettendo queste, appunto, in discussione; difficilmente, in definitiva, si può negare un potere correttivo del Presidente in ordine alla promulgazione. Il problema della eventuale separazione di parti non scindibili, del resto, sussiste anche ove si neghi il detto potere correttivo”. (qui riportato quasi testualmente). V. Corso di giustizia costituzionale, cit. pp. 300 ss.

[2]Cfr. F. S. MARINI, G. GUZZETTA, Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 551.

[3]Al riguardo, A. CERRI: “(…)L’impugnazione statale e regionale trova la sua disciplina generale nell’art. 127 Cost. e nell’art. 2, l. cost. n. 1/1948, salve alcune variazioni previste dagli statuti speciali (per il T.A.A. e per la Sicilia). Le norme parametro sono quelle della Costituzione e degli statuti speciali; in questo caso meno importante che nel giudizio incidentale (ma talvolta anche significante) è distinguere fra disposizione e norma, atteso il minor rilievo del momento interpretativo. Finiscono con l’essere considerate “interposte” e, dunque, con l’integrare il parametro del giudizio oltre che, come è ovvio, le disposizioni-norme che fissano i “principi della materia”, quando si tratti di competenza ripartita, anche le norme contenute nei decreti di attuazione degli statuti speciali e, comunque, le norme di attuazione dell’istituto regionale, pur se contenute in atto con valore di legge ordinaria (cfr. sent. 165/1986). Ciò si inscrive in quel rapporto circolare che finisce con il formarsi tra interpretazione del testo costituzionale e svolgimenti di questo attraverso le leggi fondamentali. L’esame delle norme statutarie e di attuazione deve essere, per le Regioni ad autonomia speciale, prioritario rispetto all’utilizzo dei parametri generali offerti dal tit. V, parte II, Cost.: cfr., ad es., sent. 213/2003; 258/2004; 202, 203/2005; 75, 107, 119, 175, 370/2006; 21, 38, 110, 238/2007, ecc. Se due questioni sono equiordinate, precede l’esame di quella fondata sullo statuto speciale: sent. 447/2006. Sul rilievo dei decreti di attuazione degli statuti speciali ricorderei, ad es., sent. 165/1986; 137, 991/1988; 260/1990; 362/1993; 52/1990; 520/2000, ecc.; sul rilievo di leggi modificative dello statuto T. A. A. (nella parte finanziaria), previste dal medesimo statuto (art. 104) con la procedura speciale della proposta concorde della Regione o delle Province e del Governo statale, cfr., ad es., sent. 36, 356, 366/1992; 52, 165/1994; 458/1995; 520/2000. Sul rilievo assunto dal d.P.R. n. 616/1977 come fattore integrativo del parametro di giudizio anche sulle leggi v., ad es., sent. 239/1982; 225/1983; 223/1984; 216/1985; 179, 192, 304, 517 del 1987; 302, 478/1988, ecc. Con riguardo al d.lgs. n. 112/1998 cfr., ad es., sent. 337/2001; 327/2003; 13/2004. Sulla 1. n. 131/2003, cfr., ad es., sent. 12/2006. Nel senso di ribadire, peraltro, il carattere “ordinario” e modificabile anche di atti legislativi fondamentali nell’attuazione delle autonomie regionali v. sent. 631/1988 ed, implicitamente, 101/1989; 337/2001. Sui principi della materia come “norma interposta” v., ad es., sent. 425/2006. Sulla desumibilità delle norme interposte anche da atti di legislazione delegata, cfr:, oltre a sentenze già menzionate, esplicitamente, sent. 50, 205, 270, 384/2005, 384/2005; 406/2006, ecc. Il parametro deve essere attualmente applicabile: cfr. sent. 236/ 2004. Benché i rapporti fra statuto e leggi delle Regioni ad autonomia ordinaria sia piuttosto di competenza che di gerarchia (nella ricostruzione della Corte), non mancano aree di intersezione (materia elettorale, organizzativa, ad es.) nelle quali lo statuto assume rilievo di norma parametro: cfr., ad es., sento 10/1980; 470/1992; 87/1998; 3, 51/2006. La Corte ha escluso, come è noto, rilievo giuridico alla “parte, programmatica” dello statuto. Lo statuto, peraltro, non vincola la legge statale che fissa i principi della materia (sent. 171/1999). Si è escluso (sent. 271/1996) che i principi della materia possano esser fissati attraverso decreto-legge, stante la precarietà degli effetti di questo atto (incompatibile, direi, con il carattere necessariamente stabile dei principi); diversa potrebbe essere però la soluzione con riguardo all’interesse nazionale, nella misura in cui (come interesse indivisibile) continua ad esser limite dell’autonomia regionale. Cfr., in genere, sent. 20/1956, 30/1968; 136/1969, 212/1984, 160/1985; 52, 355, 356, 412/1994; 109/1995; 263/1997; 137, 213, 352/1998; 341, 342, 353/2001; 520/2002; 38/2003; 236, 316/2004; 249/2005; 340, 406/2001/2005; 51/2006; 50/2007. Potrà integrare il parametro anche la normativa comunitaria e dei trattati internazionali, ora invocabile anche a favore delle competenze regionali (art. 117, nuovo testo, co. 1): cfr, infatti, sent. 406/2005. É probabile che la ricorribilità in via principale in relazione alle norme comunitarie continuerà a coesistere con il principio di generale non applicabilità delle norme interne con esse incompatibili (sent. 170/ 1984), purché, a loro volta “comunitariamente” legittime, essendo il giudizio principale, pur se non più “preventivo” (cfr. sent. 384/1994; 94/1995, 85/1999), ancora “via” estremamente rapida di ripristino del diritto comunitario. I casi, fino ad ora verificatisi, attenendo al rispetto di direttive (sent. 406/2005, 398/2006, ad es.), non sono, peraltro, interamente probanti a questi fini. La medesima Corte comunitaria, del resto, accanto alla non applicazione, consiglia la rimozione delle leggi incompatibili con il diritto comunitario. È inoltre da rilevare il carattere solo “orientativo” che talvolta assume l’indicazione del parametro nel giudizio principale, in relazione alla natura peculiare del vizio di competenza. Oggetto del giudizio può essere una legge od un atto con forza di legge dello Stato o della Regione; l’espressione dell’art. 134 Cost. deve intendersi come ricognitiva delle competenze esistenti e non come fondativo di una competenza regionale ad adottare atti equiparati alla legge. La Corte costituzionale, valorizzando anche la diversa terminologia impiegata dall’art. 127 Cost., che prevede un ricorso dello Stato quando ritiene che la legge regionale “ecceda” le competenze della Regione, e dall’art. 2, 1. cost., n. 1/1948, che prevede un ricorso della Regione quando ritiene che la legge dello Stato “invada” le sue competenze, ha inteso in senso più ampio la legittimazione dello Stato, ritenendo, appunto, lo Stato legittimato ad impugnare una legge regionale per qualsiasi vizio di costituzionalità, traducendo si tale vizio anche in difetto di competenza (v. già sent. 30/1959). Ciò è stato confermato con riguardo al nuovo testo costituzionale (art. 127), che prevede una legittimazione regionale quando la legge dello Stato “leda” le sue competenze. L’argomento letterale, in sé piuttosto fragile, è supportato dall’intuizione (resa esplicita nelle sent. 94, 274/2003) che vede nello Stato il garante dell’unità della Repubblica (art. 5 Cost.); avrei qualche dubbio su questa “asimmetria” persistente, del tutto sconosciuta ad altre esperienze costituzionali e non giustificabile con l’imputabilità a) solo Stato della competenza di revisione costituzionale, altra cosa essendo la competenza suddetta ed altra la pari soggezione dello Stato e della Regione alla Costituzione vigente; e, d’altra parte, l’identificazione della garanzia dell’unità della Repubblica con quella di indifferenziata tutela della legittimità costituzionale “proverebbe troppo”, essendo tale principio di legittimità riferibile anche alle leggi dello Stato e sarebbe inoltre non realistica perché non ogni norma costituzionale incorpora davvero questo valore. A mio sommesso avviso la legittimazione dello Stato, in un regionalismo davvero paritario, dovrebbe comprendere la difesa delle competenze statali ed anche delle ragioni di inderogabile unità del sistema; mentre una legittimazione pervadente dello Stato finisce con l’incoraggiare una giurisprudenza riduttiva dell’autonomia regionale, le cui leggi (ed i cui statuti) vengono cosi valutati in una rarefatta esigenza di modelli uniformi ma con riferimenti talvolta troppo deboli a concrete ed effettive esigenze unitarie. Anche in relazione al rischio di un contenzioso non governabile. Questa onnicomprensiva legittimazione statale, oltre agli inconvenienti segnalati nel testo, finisce, talvolta, anche con il vanificare la “gestione politica delle competenze”, preordinata all’ottimo dimensionamento ed esercizio di queste: cfr. 132/2006, su ricorso dello Stato a difesa delle competenze di Trento e Bolzano contro Regione T.A.A. Altra dottrina tende ad un riequilibrio delle legittimazioni estendendo piuttosto quella regionale; ciò ha trovato, una misurata conferma nella giurisprudenza della Corte; e, peraltro, fuori da quella misura, condurrebbe le Regioni ad uri ruolo improprio di controllo nei confronti dello Stato; oltre a duplicare i segnalati inconvenienti di una legittimazione “astratta”. Nella più recente giurisprudenza, la Corte sembra ammettere una legittimazione regionale per far valere la violazione di qualsiasi norma di livello superiore; purché la legge o ratto equiparato che si impugna incida sulle competenze regionali. Ciò, peraltro, non copre le ipotesi in cui si è ammessa la legittimazione regionale a difesa del proprio statuto speciale, anche per le disposizioni non fondativo di competenza, oppure a difesa delle popolazioni rappresentate o degli enti locali o relative alla titolarità di beni pubblici; oppure a far valere il principio di eguaglianza (fra Regioni) sia contro leggi che incidono negativamente sugli interessi delle popolazioni rappresentate (sent. 2/1972), sia contro leggi che prevedano ingiustificato privilegio a favore di altra Regione (sent. 276/1991), ecc. Una chiave di lettura può essere offerta dalla sent. 287/2004, che distingue lesioni “dirette” e “indirette” delle competenze regionali (sent. 286/2004: lesione delle competenze da collegare a “circostanze di mero fatto”), dovendosi richiedere una qualificazione ulteriore del parametro (nel senso che debba essere ispirato ad una ratio di garanzia quanto meno “anche” dell’autonomia regionale) per le sole lesioni « indirette”. Ciò può contribuire a spiegare le persistenti oscillazioni della giurisprudenza in argomento. Cfr., ad es., sent. 303/2003, 4, 6, 196, 286, 287/2004, 50, 272/2005; 116/2006; 98/2007, ecc. Secondo l’accennata ricostruzione, la Regione potrebbe far. valere anche un “interesse di mero fatto”, differenziato ma non qualificato, per esprimerci nei termini della giustizia amministrativa, in caso di incisione diretta nelle competenze; dovendo, invece, l’interesse risultare ulteriormente qualificato in ipotesi di incisione indiretta. È da valutare problematicamente in questo contesto la sent. 116/2206, che nega legittimazione a far valere vizi di mancata consultazione popolazioni in legge statale di modifica territorio Cfr. anche sent. 398/1998. In questo quadro può esser valutata anche la sent. 742/1988, che esclude possano le Regioni impugnare la normativa sulla c.d. “tesoreria unica”, secondo cui le somme erogate dallo Stato non erano “gestite”, nel periodo intercorrente fra l’erogazione e la spesa, presso le rispettive tesorerie regionali ma presso la Banca d’Italia, in quanto il vantaggio di (l’interesse a) lucrare i tassi di interesse bancari non trova copertura in norme di rilievo costituzionale.; cfr., nel medesimo senso, sent. 162/1982; 307/1983; 242, 243/1985; 370/1993 (legge statale di tassazione del patrimonio Iacp); 286/2004, ecc. Si è ammessa una legittimazione regionale alla tutela, comunque, delle norme del suo statuto speciale (e decreti attuativi), anche se non attinenti propriamente al riparto delle competenze: cfr. sent. 32/1960 (uso della lingua, bilinguismo, proporzionale etnica in T.A.A.), 1/1961, 585/1989, 3/1991, 239/2007 ecc. (implicitamente, già sent. 12/1956). Su leggi concernenti la titolarità di beni, v. sent. 20/1956; 22/1978; sulla finanza regionale la giurisprudenza è sterminata: cfr., ad es., sent. 260/1990; 4/2004; e, specie per le Regioni a statuto speciale, sent. 428/1989; 356/1992; 105/1994; 253, 429, 430/1996; 111, 138/1999; 98, 405/2000; 337/2001; 92/2003; 306/2004; 98/2007, ecc. Con riguardo al principio di copertura delle nuove spese (art. 81 e 119 Cost.), v., ad es., sent. 307/1083; 245/1984; 64/1987; 283/1991. Sulla legittimazione a difesa egli interessi della popolazione residente v. sent. 533/2002; cfr., analogamente con riguardo all’art. 120 Cost., sent. 51/1991 (su conflitto); non anche della popolazione di altre regioni o del “nord” in generale (sent. 426/1999). Sull’eguaglianza fra Regioni v. sent. 11/1969; 2/1972; 342/1974; 243/1985; 276/1991; 412/2001. L’eguaglianza, peraltro, non può essere invocata nel raffronto tra disciplina di autonomia ordinaria e speciale o fra le diverse discipline di Regioni ad autonomia differenziata (integrando, appunto, la normativa sull’autonomia speciale, per sè, una deroga legittima all’eguaglianza stessa): sent. 242, 243/1985; 381/1990; l’eguaglianza, peraltro, può esser invocata in senso inverso ed a favore delle Regioni a stat. speciale, nella forma dell’argomento a fortiori (sent. 483/1991). È escluso, invece, che la Regione possa far valere in via principale una irragionevolezza del tutto obbiettiva (sent. 482, 483/1991; 383/2005; ma v. sent. 196/2004); neppure è invocabile una violazione dell’eguaglianza fra cittadini (cfr., ad es., sent. 302/1988; 482/1991; 337/2001; 286, 287/2004, 50, 383/2005, ecc.; in linea con il recente indirizzo v. sent. 184/2007). Si esclude, dunque, ancora che la Regione possa far valere la violazione dell’art. 24, aggiungendo, tuttavia, la riserva della non incisione nella competenze regionali: cfr. sent. 50/2005; più drasticamente, con riguardo all’art. 25 Cost., v. sent. 196/2004. Cfr., analogamente, con riguardo agli art. 32, 33 Cost., sent. 279/2005; 116/2006. Principi analoghi dovrebbero valere in materia del diritto alla salute e dei diritti previdenziali: cfr. le non recenti sent. 355/1993; 373/1997; 507/2000; o con riguardo agli art. 41, 42 Cost. (sent. 21/1991); o all’art. 53 Cost. (sent. 171/1999). Con riguardo agli art. 95 e 97 Cost., cfr., analogamente, sent. 407/1989; 412/2001; 196, 345/2004; 36, 37, 50, 38372005; 184/2007. Quanto detto consente forse di far luce sulla tortuosa giurisprudenza in tema di principio di legalità (con riguardo al decreto legislativo, al potere regolamentare, ad es.), di riserva di legge, ecc. Con riguardo a censura di violazione dei principi e criteri direttivi fissati in legge di delegazione, cfr., ad es., sent. 182, 192/1987; 272, 519, 617/1988; 295, 355/1993; 124, 128, 224, 338/1994; 87/1996; 206, 353/2001; 93, 303/2003; 228/2004; 36, 50, 279/2005, ecc. Talvolta si è annesso che il rispetto o la sufficiente determinazione dei principi e criteri possa essere azionato dalla Regione a prescindere dal loro contenuto (sent. 303/2003; 280/2004). Non si è ritenuto, invece, possa essere invocata norma, che preveda una riserva di legge statale (sent. 29/1995; 228/ 2004). É vero, peraltro, che si assume una riserva di legge a tutela delle competenze regionali, non suscettibili, dunque, di essere incise mediante fonte regolamentare (cfr., ad es., sent. 84, 206/2001), ma solo con legge od atto equiparato. In questo nuovo contesto sempre più di frequente si ammette la legittimazione regionale a far valere vizi di carente necessità ed urgenza del decreto legge (nei limiti in cui sono in generale deducibili), legittimazione, per l’innanzi, negata: cfr., per l’indirizzo risalente, ad es., sent. 307/1983; 8, 229/1984; 34/1985, 544/1989; si faceva eccezione solo quando tale vizio fosse connesso alla difesa di competenze regionali: sent. 302/1988; 6/2004. Più di recente cfr. sent. 6, 196/2004; 62, 272/2005; 116/2006, ecc. Ed, ancora, la risalente negazione di una legittimazione regionale a difesa degli enti territoriali minori (cfr., ad es., sent. 408/1998; 171/1999 e, in sede di conflitto, sento 157/1975), sembra superata nel nuovo quadro normativo, avendo la revisione del tit. V, parte Ila Cost. conferito (implicitamente ed esplicitamente) alle Regioni competenze in argomento ed in relazione al potere di proposta degli enti locali per i ricorsi anche regionali (art. 31, co. 3, e 32, co. 2, 1. n. 87/1953, come modificata dall’art. 9,1. n. 131/2003): cfr., implicitamente, sent. 4, 16, 17, 36, 37, 196/2004; 95/2007. Per quel che riguarda il T.A.A. spetta alla Regione ed alle Province autonome di Trento e Bolzano una distinta legittimazione al ricorso, che si determina in base alla competenza difesa e, cioè all’interesse fatto valere (art. 97, 98, d.P.R. n. 670/1972, recante il testo unico delle leggi costituzionali che integrano lo statuto speciale di quella Regione; cfr., ad es., sent. 381/1990; 3, 482/1991; 373/1995; 137/1998; 377, 520/2000). Nella giurisprudenza dei primissimi anni si ammetteva la sola legittimazione passiva delle Province, in caso di impugnazione di una loro legge (sent. 17/1956; 22, 56/1957); solo in seguito si ammise anche una legittimazione attiva delle Province (sent. 40/1960; 68/1961; 192/1970), che la riforma dello statuto favorevole alle competenze provinciali ha reso particolarmente ricca. Sulla legittimazione delle minoranze etniche cfr. sent. 261/1995; 356/1998. Sulla carente legittimazione di consigliere regionale cfr. sent. 378/2004. In relazione, appunto, all’ampia legittimazione regionale, non è esclusa questione a contenuto negativo, proposta nei confronti di legge statale che attribuisca competenze e compiti alla Regione senza la necessaria “copertura finanziaria” od anche solo “amministrativa” (compiti che la Regione non ritiene di esser preparata ad assolvere) (cfr. sent. 451/1988; 377/ 2000, ad es.)”. (qui riportato quasi testualmente). V. Corso di giustizia costituzionale, cit. pp. 294 ss.

[4]Sull’argomento A. CERRI: “(…)L’atto d’impugnazione è atto politico (cfr. sent. 35/1995); il ricorso deve, dunque, essere deliberato dal Governo (sent. 119/1966; 496/1993; 35/1995) o dalla Giunta regionale (sent. 15/1957; 33, 36/1962) nella sua collegialità, eventualmente su proposta, rispettivamente, della Conferenza Stato-Città e autonomie locali o del Consiglio delle autonomie locali (art. 9,1. n. 131/2003). Per motivi di urgenza, peraltro, il ricorso può esser proposto anche da un Governo dimissionario (sent. 119/1966). Si è ammessa una presentazione del ricorso ad opera del Presidente del Consiglio senza una previa delibera del Governo, purché intervenga una ratifica nei termini d’impugnazione (sent. 54/1990; meno rigorosa la sent. 147/1972, relativa ad ipotesi di Governo entrato in funzione proprio nel giorno di scadenza del termine per impugnare). Quest’ultima sentenza, non poco criticata in dottrina, pone tuttavia un problema tutt’altro che trascurabile: posto che carattere della funzione governativa (a differenza, ad es., di quella parlamentare) è la “continuità ininterrotta” (similmente alla funzione del P.M. e a differenza di quella della magistratura giudicante, ad es.), non è concepibile un tempo (un giorno: quello dell’entrata in funzione del nuovo governo, ad es.) nel quale la possibilità di impugnare (come, in genere, l’operatività dell’istituzione) sia giuridicamente impedita; la soluzione data dalla Corte, peraltro, non convince: difficilmente si ammetterebbe, ad es., una “sostituzione” del Presidente del Consiglio al Governo nella sua collegialità nell’adozione di un decreto-legge; essa, in realtà, rivela il “tono” costituzionale non elevatissimo che in genere assume l’atto d’impugnazione in via principale. Delle due, dunque, l’una: o si ammette una prorogatio, per gli atti urgenti, del Governo uscente (anche dopo l’accettazione delle dimissioni), fino al giuramento del nuovo (cfr. sent. 33/1962, in tema di Giunta dimissionaria), ipotesi da ritenere “risorsa ultima” e tuttavia non rifiutabile, o si esige un’accelerazione tale nella formazione di questo da coprire ogni insorgenza urgente. Difficoltà di questo genere non si presentano in ipotesi di Giunta dimissionaria. La delibera del Consiglio dei Ministri deve, dunque, precedere l’atto di ricorso (cfr. sent. 228/2004; 216/2006); non occorre peraltro una esplicita menzione di essa in quest’ultimo, essendo sufficiente sia depositata all’atto di costituzione (sent. 76/1963). La delibera del Consiglio dei Ministri o della Giunta può rinviare ad ulteriori atti (relazione Ministro per gli affari regionali o dell’Assessore competente, parere dell’Avvocatura dello Stato o regionale, ecc.); rinvio che vale a integrare il ricorso (cfr. sent. 338/2003; 43/2004, a fini interpretativi) anche se questi atti non vengono allegati, potendo essere acquisiti in via istruttoria (cfr., ad  es., sent. 134/2004). Pur essendo innegabile, sotto un certo punto di vista, che la decisione sul ricorso tocca gli interessi della Regione, non si ritiene debba ad essa prender parte il Presidente della Regione medesima (quando ciò sia previsto dallo Statuto speciale: cfr. art. 40; u. co., 52, co. 4, Stat. T.A.A.; 44, u. co., Stat. Valle d’Aosta; 47, u. co., Stat. Sardegna: 44 Stat. F.V.G.; 21, co. 3, Stat. Sicilia); si tratta, infatti, di atto che esprime un momento contrappositivo degli enti in questione (in passato si sottolineava anche la tutela adeguata degli interessi regionali mediante il procedimento di rinvio: sent. 12/1963). Il problema è distinto da quello che attiene alla pretesa partecipazione all’atto legislativo (decreto-legge, disegno di legge governativo, ecc.) impugnato (perché incidente, appunto, sulle competenze difese), che viene anche esclusa, in difetto di un interesse “differenziato” della Regione (cfr., ad es., sent. 381/1990). La proposta della Conferenza Stato-Città e autonomie locali o del Consiglio delle autonomie locali, prevista dalla recente legge attuativa della revisione cost. del tit. V, parte II Cost., vuoI sopperire al difetto di legittimazione attiva degli enti locali minori in sede di giudizio principale. Essi comunque, potendo far valere le rispettive competenze come posizioni soggettive tutelate (secondo un’ormai con­solidata giurisprudenza), potranno adire la Corte impugnando gli atti di esecuzione della legge di dubbia costituzionalità e, in quella sede, sollevando q. di l. c. L’equiordinazione fra Stato e Regione nei modi di impugnativa, avrebbe accentuato il carattere contenzioso del giudizio e, con esso, il rilievo politico dell’atto di impugnativa e di rinunzia. Anche la delibera d’impugnazione deve contenere i relativi motivi, che delimitano quelli dell’atto di ricorso vero e proprio, a cura della difesa tecnica (dello Stato o della Regione). La delimitazione, probabilmente, attiene all’oggetto (disposizioni impugnate) ed ai parametri, avuto riguardo alla loro identità normativa e non puramente testuale, investendo i profili solo genericamente, per il tipo di esigenze di natura costituzionale evocato (cfr. sent. 35/1995). Sulla necessaria specificità della delibera di ricorrere (quanto a disposizioni impugnate ed a parametri) cfr., ad es., sent. 533/2002, 315/2003, 43, 134/2004; 50, 300, 384/2005; 49, 139, 216, 248, 253, 391/2006, 105, 193/2007, ecc. È da osservare che l’accento cade più sulla individuazione dell’oggetto che del parametro, rispetto a cui l’iniziativa della difesa tecnica sembra più ampia (sent. 533/2002), a meno che, in ipotesi di impugnazione di un’intera legge, l’indicazione del parametro non sia necessaria anche ad individuare l’oggetto (sent. 98/2007; v., peraltro, sent. 275/2007, rigorosa per quel che attiene all’indicazione del parametro). In questo quadro si colloca, appunto, il problema dell’impugnazione di un’intera legge che, nel giudizio principale, incorre nell’ostacolo (non insuperabile) della genericità (mentre in quello incidentale incontra anche l’ostacolo della rilevanza): cfr., sul tema, ad es., sent. 93; 94, 303, 315, 74, 134, 185, 238/2004, 50, 95, 106, 270, 279, 270, 279, 360/2005; 22, 59, 39, 253/2006, 98/2007, ecc. A questi fini assumono rilievo fattori come la natura del vizio lamentato, l’omogeneità o eterogeneità delle disposizioni impugnate, la loro connessione eventualmente inscindibile, ecc. E da tener pretese che il vizio di competenza può, per natura sua, investire una pluralità di disposizioni. Sull’effetto delimitativo della delibera di ricorrere cfr., ad es., sento 496/1993; 172, 233, 290/1994; 35, 147/1995; 29/1996; 244/2001; 48, 315, 338/2003; 300/2005; 323, 423/2006, ecc. Si è conferito rilievo “interpretativo” anche, a delibere successive a quella che autorizza il ricorso (sent. 343/1991, ad es.); non, peraltro, “sostitutivo” (cfr. sent. 216/2006). Sulla base della delibera a ricorrere viene proposto l’atto di ricorso, presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri o della Giunta regionale personalmente od anche attraverso persona a ciò delegata (sent. 57/1957, con considerazioni che investono tutti i giudizi “contenziosi” innanzi alla Corte) ma redatto dalla difesa tecnica, che deve indicare con precisione i motivi di censura alla legge impugnata, sia per, consentire un controllo sull’interesse a ricorrere, sia, principalmente, a tutela di un leale contraddittorio, esigenza quest’ultima da ritenere di particolare stringenza in un giudizio di parti qual è quello in esame. La difesa tecnica deve essere regolarmente investita da procura alla lite (sent. 29/2006). Come nel giudizio incidentale, si afferma un principio di “autosufficienza” dell’atto introduttivo che esclude possa esser motivato per relationem (sent. 139, 364/2006; 38, 40/2007, ad es.). Sulla necessaria specificazione dei motivi di ricorso cfr., ad es., sent. 245/1984; 195/1986; 517, 988, 1013, 1111, 1131/1988; 19, 242/1989; 369/1990; 40, 343, 360/1991; 115/1993; 261, 478, 520/1995; 29, 134, 205, 256, 352, 382/1996; 138, 382, 384/1999; 317, 337, 340/2001; ord. 358/2002; sent. 213, 226, 274, 313, 327/2003; 73, 166, 176, 196, 198/2004; 37, 108, 159, 172, 202, 205, 272, 360, 383, 384, 450, 462, 450/2005; 29, 129, 139, 205, 207, 213, 214, 215, 248, 267, 364/2006; .194/2007, ecc. La motivazione deve indicare esattamente il parametro: ciò implica anche l’indicazione delle norme interposte (principi della materia, direttive comunitarie: sent. 73/2004 , 246, 365/2006); deve individuare la norma impugnata (ciò pone problemi; come visto, specie quando si impugna un insieme vasto di disposizioni o un’intera legge); deve indicare le ragioni ed i profili per cui la norma impugnata viola il parametro (sent. 157/2007, ad es.; ciò pone problemi, segnatamente, quando si interpongono dinamiche fattuali: copertura delle spese ex art. (81 Cost, principio di libera circolazione ex art. 120 Cost., ecc.: sent. 274/2003; 29, 207/2006; 256/2007, ecc.); deve indicare con precisione ulteriori atti (convenzioni internazionali, ad es.) da cui intende trarre argomenti o ragioni di censura. E inadeguata, dunque, una motivazione “apodittica”, che non chiarisca le ragioni dell’asserito contrasto; mentre si ammette una motivazione sintetica, purché chiara. Talvolta si sottolinea il carattere particolarmente esigente. di precisazione dell’atto introduttivo, in relazione al carattere contenzioso del giudizio: sent. 384/1999; 233/2006 ecc. Vero è che, talvolta, questo rigore si spinge anche troppo oltre, considerando inammissibili, perché non chiari, ricorsi cui controparte ha puntualmente replicato. Il ricorso delimita la materia del contendere in senso probabilmente più rigoroso di quanto visto con riguardo alla delibera che lo precede: nei termini e nei profili specificamente indicati (salvo il consueto potere interpretativo della Corte). Cfr., ad es., sent. 372/1996; 382/1999; 337/2001; 438/2002; 406/2005; 246/2006; 98/2007, ecc. La Corte, peraltro, interpreta il ricorso (dec. 184, 510, 516, 521/1989; 446, 583/1990; 185/1998; 85/1999; 228/2004; 26, 95, 203/2005; 248/2006, ecc.), superando eventualmente anche errori materiali nel testo pubblicato, quando facilmente riconoscibili e, dunque, non tali da compromettere la difesa del resistente (sent. 311/2003). Si può avvalere a questi fini, come anche ai fini dell’interpretazione della delibera del Governo o della Giunta, anche della delibera relativa e degli atti collegati (cfr. sent. 29/1996; 162, 166/2004; 447/2006). Si è ammesso, peraltro, che i motivi possano essere eccezionalmente integrati, nell’ipotesi almeno di legge di conversione che rechi modifiche all’impugnato decreto legge (sent. 169/1994); ciò nel quadro della “naturale comunicazione” dell’impugnativa alla legge di conversione, che esclude l’onere di una distinta impugnazione di questa. Il particolare rigore nella delimitazione della materia del contendere dell’atto introduttivo di un giudizio contenzioso, qual è quello in esame, non esclude, a differenza che nel giudizio incidentale, oltre, alle questioni subordinate, anche, ad es., “questioni formulate in via alternativa” o ad es., “interpretazioni alternative” o, comunque, tali da evocare un dubbio interpretativo, purché non meramente pretestuoso, in relazione al fatto che non può incombere sul ricorrente l’onere interpretativo che grava sul giudice a qua ed, aggiungerei, non sussistendo, nel caso, il limite della rilevanza. L’ammissione di questioni alternative (sent. 244/1997; 70, 383/2005, 448/2006) copre, peraltro, fattispecie diverse, in alcune delle quali l’alternativa cade sul parametro, in altre sull’interpretazione, mai sull’oggetto (cioè sulla disposizione, come distinta dalla norma). Questa giurisprudenza include ipotesi nelle quali le questioni potevano anche configurarsi come “subordinate” (sent. 70/2005, ad es.) e coesiste con altra che esclude l’ammissibilità di questioni “contraddittorie” (sent. 120/2003; 277, 462/2005, ad es.; v. poi sent. 391/2006, che ritiene inammissibile questione contraddittoria, prospettabile ma non prospettata con il vincolo della subordinazione). Sembrerebbe, dunque, necessaria una riflessione sul tema, analoga a quella svolta con riguardo al giudizio incidentale, volta a distinguere i diversi tipi di alternativa (forte o debole) e le diverse sue ricadute (sul parametro, sull’oggetto della questione, sull’interpretazione, sull’esito, ad es.), così da delimitare l’ampiezza di questa ammissione. Certo è che si ammette ampiamente l’alternativa di interpretazioni (sent. 244/1997; 412/2001; 449/2005; 447/2006, ad es.), potendo l’interpretazione esser prospettata anche solo come possibile e potendo, dunque, il ricorso assumere carattere cautelativo, nel limiti della non implausibilità o pretestuosità (sent. 228, 242/1989; 412/2001; 228/2003; 412, 440/2004; 249, 384, 449/2005, ad es.). Coerentemente, il ricorso può anche prospettare la possibilità di un’interpretazione adeguatrice: sent. 234, 249/2005. V., diversamente, sent. 21/1956, che dichiara improponibili ricorsi “eventuali” cioè condizionati ad una certa interpretazione e gli acuti rilievi critici del CRISAFULLI, in relazione anche alle ricadute che una legge, non impugnata in termini, ove l’interpretazione censurata fosse poi ritenuta l’unica possibile, verrebbe a dispiegare in un successivo conflitto. La Corte ritiene ammissibili (in questo caso, non diversamente da quel che fa nel giudizio incidentale) anche questioni subordinate (cfr., ad es., sent. 213/2003; 162/2005). Si tratta di stabilire se il carattere « “subordinato” derivi dall’ordine logico, dalla misura di oggettiva “satisfattività” per l’interesse del ricorrente o dall’ordine. dato dal ricorrente stesso (in questo senso, sent. 391/2006): tenuto conto del carattere “politico” dell’impugnazione, le determinazioni del ricorrente possono assumere rilievo; resterebbe da chiedersi se a questi fini possono rilevare anche le determinazioni della difesa tecnica. Ove, peraltro, due censura assumano un ordine logico (o di tutela degli interessi) oggettivo non sembra necessaria anche una scansione espressamente gradata delle censure. Da un punto di vista logico o dell’interesse oggettivo discutibile, ad es., è il rapporto fra censura per vizio di leale collaborazione e per violazione di competenza; mentre sembrerebbe che la censura che investa l’intera legge debba precedere quelle relative a singole parti (sent. 270/2005). Nel giudizio principale, a differenza che in quello incidentale, la Corte limita al massimo lo slittamento della questione di costituzionalità in questione interpretativa; ciò lo si vede anche nell’indirizzo restrittivo a proposito delle clausole generiche di salvaguardia delle competenze delle Regioni a statuto speciale: cfr. sent. 37/1966, 242/1989, 224/1990; 308, 359/1993; 163, 425/2000; 125/2003, 280/2004, s. 205, e 384/2005, 240/2007, ecc. Ed, inoltre, tale rigore sembra talvolta lasciare maggiore ‘ spazio (rispetto al giudizio incidentale) alla cognizione d’ufficio del diritto (jura novit curia), oltre la considerazione di norme costituzionali giustificative della disposizione impugnata; nel senso che, una volta indicato quale sarebbe il “vizio di competenza” che si lamenta, l’inserimento di questo nel quadro delle disposizioni costituzionali, segnato da intersezioni o sovrapposizioni, non esclude poteri “officiosi”. Ciò, probabilmente, sia per ragioni analoghe a quelle che consentono “questioni alternative”, sia per il peculiare intreccio di previsioni onde si connota la normativa in materia. Come per il giudizio incidentale e come per i conflitti, probabilmente persiste una rilevabilità d’ufficio delle più radicali nullità. Si è fatta menzione della sent. 357/1995, pronunziata in giudizio principale, e della sent. 43/1992, pronunziata in sede di conflitto, oltre che del dibattito dottrinale in argomento e di ulteriori “casi” nei quali la problematica avrebbe potuto assumere rilievo. Ed, allora, il particolare rigore dell’atto introduttivo deve essere inteso come attinente alla formulazione di ciascuna censura (sent. 206/2001; 75/2004), sia essa “semplice” o “alternativa” e salva la valutazione della Corte”. (qui riportato quasi testualmente). V. Corso di giustizia costituzionale, cit. pp. 306 ss.

[5]Cfr. F. S. MARINI, G. GUZZETTA, Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 546.

[6]Sull’argomento A. CERRI: “(…)Il giudizio principale può estinguersi per rinunzia del ricorrente, ove accettata dal resistente (art. 25, N.I.). La prevista necessaria accettazione (come nei giudizi civili ed a differenza di quelli amministrativi) sottintende un interesse all’accertamento della competenza che trascende quello della mera conservazione dell’atto impugnato. Ciò non esclude, peraltro, la rilevabilità d’ufficio dei motivi (eventuali) di cessazione della materia del contendere e, dunque, la necessaria attualità di un interesse anche ad un giudizio sulla competenza. Nel giudizio civile, il convenuto può non accettare la rinunzia agli atti del giudizio solo se sia ravvisabile un suo interesse alla decisione (art. 306 c.p.c.); analogamente dovrebbe ritenersi nei giudizi costituzionali. È richiesta l’accettazione della rinunzia solo alle parti costituite (sent. 59/1961) e, dunque, non è necessaria se pare resistente non si è costituita (cfr., implicitamente, ord. 239/1974; 164/1991; 524/1995; v., diversamente, sent. 80/1978. La rinunzia può essere anche implicita in delibera avente oggetto diverso (cfr. ord. 71/2000, nella quale la rinunzia si ritiene implicita nella delibera del Governo di vistare la legge impugnata; cfr. anche ord. 461/1992 su successiva delibera consiliare contraria al ricorso: si ricordano le regole particolari previste nello statuto T.A.A.); non assume, dunque, un carattere formale specularmente corrispondente alla delibera di ricorrere. Sulla distinzione fra rinunzia e cessazione della materia del contendere v. dec. n. 74/1960; quando la rinunzia è parziale, la Corte può ritenere cessata la materia del contendere per la parte corrispondente o anche per quella residua (cfr. sent. 1/1958; 36/2005; 435/2006); altre volte si è pronunziata l’estinzione parziale (sent. 74/1977; 422/2006), eventualmente accompagnata da difetto di interesse per la parte residua. Accordo stragiudiziale fra Stato e Regione (nel quale può essere implicita una rinunzia) può esser valutato ai fini della cessazione della materia del contendere (sent. 47/1983). La rinunzia, pur se formalmente non speculare all’atto di iniziativa, dovrebbe provenire dagli organi legittimati a proporre il ricorso; vero è che quando viene presentata dal Presidente del Consiglio o della Giunta, la Corte non sempre dà atto della provenienza dall’organo collegiale (cfr. ord. 202, 268 del 1997). Talvolta, anzi, la Corte ha ritenuto sufficiente a far fede delle delibere avvenute l’attestazione dell’Avvocatura dello Stato, come anche della difesa regionale (ord. 10, 31/1958; v. anche dec. 375/1992; 201, 320/1998, nelle quali non si dà conto della provenienza della dichiarazione di rinunzia). Nei conflitti fra Stato e Regione v., ad es., quasi esplicitamente, ord. 10, 122/1987; 1101/1988; 149/1990. In effetti assumono innegabile rilievo, nei giudizi “contenziosi” innanzi alla Corte, le  “ammissioni”, come poc’anzi rilevato, desumibili anche dalla condotta della difesa tecnica e tali da consentire argomenti ragionevoli sulle determinazioni delle parti. Ciò consente di comprendere come il ricorrere delle condizioni di una cessazione della materia del contendere sembri attenuare l’attenzione della Corte agli elementi formali, avvalorando l’argomento probatorio tratto dalla condotta della difesa tecnica (cfr. ord. 134/1996; 195, 202, 268/1997, ecc.). Cfr. anche ord, 461/1992, in ipotesi di carenza originaria di delibera consiliare che sostenesse, secondo quanto prevede lo Statuto T.A.A., l’impugnazione del Presidente della Giunta e, dunque, di manifesta inammissibilità del ricorso, carenza inoltre ribadita da successiva delibera consiliare contraria. Ciò, a tacere della circostanza che la rinunzia può essere imputata direttamente alla difesa tecnica quando attenga a profili di censura che sono nella responsabilità di questa (cfr. Cass. 28 gennaio 1995, n.. 1047, ad es.). Si distingue, in sede di teoria generale, rinuncia all’azione e agli atti del giudizio, escludendosi, nel primo caso, la necessità di un’accettazione della controparte e con diversi effetti anche, ad es., ove venuta in essere nel grado di appello, sulla sentenza di primo grado (la rinunzia all’azione fa venir meno anche la sentenza di primo grado, mentre la rinunzia agli atti del giudizio ne determina il passaggio in giudicato). La rinuncia all’azione presuppone, peraltro, la disponibilità del rapporto sostanziale e si collega all’acquiescenza; ciò che, per quanto sopra detto, non sembra possibile nei giudizi principali. La rinunzia non dovrebbe precludere, quindi, conflitto per pretese interferenti con quella dedotta nel giudizio principale (per un’interpretazione, ad es., della legge non necessaria ma sfavorevole al ricorrente, anche quando il giudizio principale fosse stato proposto per possibili interpretazioni incostituzionali della legge impu­gnata). Si discute se la rinuncia abbia effetto dal momento in cui viene comunicata al giudice o alla controparte o dal momento in cui viene dichiarata, con effetti rispetto al problema della revocabilità (cfr., diversamente, Cons. St., Ad. plen., 28 giugno 2004, n. 8 e Cass., 9 aprile 1982, n. 2213; sez. I, 19 maggio 2001, n. 6880). A mio sommesso avviso, la rinuncia, almeno quando deliberata dagli organi politici competenti, diviene irrevocabile con la comunicazione dell’atto (per la salvaguardia della necessaria attività programmatoria dell’ente destinatario); una rinunzia delle difesa tecnica, quando non attenga a profili che rientrano nella disponibilità di questa, ha valore di elemento che prova il cessato interesse dell’ente a coltivare l’impugnazione; diviene irreversibile, dunque, solo con la pronunzia giudiziale”. (qui riportato quasi testualmente). V. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit. pp. 318 ss.

[7]V. l’articolo 25 delle Norme integrative in M. SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., p. 17.

[8]V. l’articolo 2, lett. d, l. n. 400/1988 e art. 31, comma 3, l. n. 87/1953 M. SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., p. 17.

[9]V. l’articolo 31, comma 3, l. n. 87/1953 M. SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, cit., p. 17.

[10]V. l. n. 131/2003 M. SICLARI, Norme relativi ai giudizi di competenza della Corte Costituzionale, Testi Normativi n. III, Collana diretta da Massimo Siclari, op. cit., p. 17; A. CERRI, Corso di Giustizia Costituzionale, cit., p. 55.

[11]Cfr. F. S. MARINI, G. GUZZETTA, Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 546.

[12]Le leggi statutarie, infatti, pur essendo impugnabili prima della loro entrata in vigore, sembrano comunque promulgabili dal Presidente della regione una volta completato l’iter formativo e scaduti i vari termini previsti. Interpretazione che sembra accolta nella senteneza n. 49/3002 nella quale la Corte costituzionale – a proposito di una legge statutaria della Valle d’Aosta – si è limitata a constatare che “succesivamente alla proposizione del ricorso la legge regionale impugnata – decorso il termine per la richiesta di referendum è stata promulgata e pubblicata come legge regionale”. Così F. S. MARINI, G. GUZZETTA, Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., 552.

[13]V. la sentenza n. 469/2005 in www.cortecostituzionale.it.

[14]Cfr. F. S. MARINI, G. GUZZETTA, Diritto Pubblico Italiano ed Europeo, cit., p. 546.

 

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